Se tanti artisti uomini hanno celebrato la vagina, come Courbet nel suo celeberrimo l’Origine du monde, perché non rovesciare la prospettiva e parlare del pene dal punto di vista di una donna omosessuale?
Stella (Stefania Gagliano), artista modenese, si è avventurata in questa prospettiva, con uno sguardo che critica con il senso della leggerezza propria dell’ironia. Un’ironia che toglie al pene il suo significato di strumento patriarcale di possesso, per guardarlo come un “oggetto”. Da qui nascono lavori come La dureté du monde o i Centrini.
Ne La dureté du monde, ovvero la ‘durezza del mondo’, un polittico composto di 12 tele, Stella parla della difficoltà di vivere all’interno delle costrizioni tipiche del ruolo di donna.
Nei Centrini, invece, una serie di disegni realizzati sui centrini di carta utilizzati per le torte, l’attenzione al pene è puramente estetica, legata alle ombre generate dalle vene. Eppure anche qui la “semplice” fascinazione estetica si vena di una riflessione critica, perché l’organo maschile viene spesso messo in relazione con elementi che rimandano alla dimensione femminile. Si crea così un dialogo fra “maschile” e “femminile”, non più visti come poli opposti, ma come elementi che possono convivere nella fluidità dei generi.
Dalla durezza del pene alla rigidità delle mummie, l’ironia di Stella prende di mira la vanitas che spinge noi mortali a ricercare qualcosa che ci renda immortali. E così nell’opera vanitas vanitatum et omnia vanitas figure ispirate alle mummie della cripta dei Cappuccini vengono fatte parlare con la “voce” di moderni sms, realmente ricevuti dall’artista. Si tratta di un lavoro in divenire, per il quale vuole coinvolgere il pubblico, a cui propone di regalarle un sms (con l’ovvia omissione del mittente). E se qualcuno vuole essere immortalato in un’opera di vanitas vanitatum et omnia vanitas, nel sito internet dell’artista può trovare il modulo da compilare (http://www.stefaniagagliano.com/#!vanitas-vanitatum-et-omnia-vanitas/c1nna).
Nel polittico la dureté du monde vediamo degli strap-on indossati da figure femminili e dei piedi in posizione di danza. Ci racconteresti da dove nasce questo lavoro e cosa l’ha ispirato?
La dureté du monde, ovvero la durezza del mondo, parla della difficoltà di essere donna, di vivere all’interno di un corpo di donna e costretta in un ruolo di donna. Non parlo di una difficoltà interiore, quanto piuttosto di qualcosa causato dall’esterno: la necessità di vivere e rapportarsi ad una società che ancor oggi, nonostante gli enormi sforzi di cambiare le cose, vive e si fonda su un modello etero patriarcale e dove la donna si ritrova costretta a lottare per ottenere una parità che non dovrebbe essere un diritto ma semplicemente qualcosa di scontato. E al pari della donna tutte quelle che ancora oggi stupidamente e inappropriatamente vengono definite “minoranze”. Parlo di cose molto banali, come il mondo del lavoro o la semplice libertà di uscire di casa indossando qualsivoglia indumento o a qualsiasi ora del giorno e della notte senza sentirsi in pericolo… cose banali ma necessarie come l’ossigeno.
Ho inoltre voluto dichiarare la mia appartenenza ad almeno due di queste minoranze: il mio essere donna e il mio essere omosessuale. A causa di entrambe le cose mi è capitato più volte di ritrovarmi in situazioni che definirei “scomode” e ogni volta ciò che le rendeva tali era la presenza di qualche curioso, di qualche inopportuno, che si sentiva in diritto di dire la sua o cercare di intromettersi o di molestare. E questo qualcuno era sempre un “uomo”.
Io non voglio puntare il dito sugli uomini ma detesto lo stereotipo tipicamente etero patriarcale dell’uomo bianco e splendido al quale tutto è dovuto. Ecco che allora con grande ironia indosso l’unico vero strumento della differenza e l’unica cosa della quale sento l’assenza, persino con un po’ di dispiacere ogni tanto… perché certe volte desidererei tanto saper fare pipì in piedi.
La dureté du monde: anche il titolo è ironico. Tutto è nato dall’origine du monde di Courbet, al quale ho voluto rendere omaggio attraverso una mia personale reinterpretazione. All’origine du monde sono seguiti altri lavori, che parlano sempre dell’essere donna ma da un’angolazione un pochino differente e non senza un po’ di critica sociale e spirito ironico. Ho realizzato la perversion du monde, la nudité du monde e infine questa dureté du monde, dove per riuscire a rendere il disagio che necessariamente alle volte siamo costrette a provare, ingabbiate dentro ai nostri corpi e ai nostri schemi, ruoli, compiti, ho voluto associare alle immagini degli strap-on le sei posizioni della danza classica, una disciplina rigida e ferrea, che letteralmente ti plasma il corpo, ti costruisce.
Anche in un altro tuo lavoro, i “Centrini” ci sono espliciti riferimenti all’organo maschile. In questo tuo citare il maschile mi sembra che ci sia quasi sempre una relazione con il femminile. Qual è il rapporto fra maschile e femminile che esplori nelle tue opere?
Devo riconoscere che il reale e sostanziale motivo per il quale ho deciso di ritrarre dei peni è che mi piacevano un sacco le ombre procurate da tutte quelle vene. Pura attrazione estetica. Alle volte si cercano spiegazioni elevate, capaci di porre l’artista su di un piedistallo: una poetica che giustifichi un’estetica. Nel mio caso spesso e volentieri quando dipingo si tratta di pura e semplice fascinazione estetica o fortissima pulsione di concretizzare un’immagine che presuntuosa si affaccia nella mia mente e non mi lascia stare. Tutto molto molto semplice.
Se penso al maschile e femminile comunque mi rendo conto che non vedo le due cose in netta contrapposizione. Anzi mi ferisce e indispettisce il fatto che vengano il più delle volte considerati come due poli opposti (e che per giunta per questa ragione dovrebbero attrarsi). Tutto questo giustifica ingiustizie e disuguaglianze sociali.
Mi piace l’essere ambiguo, l’essere fluido, la creatura capace di passare liquidamente da una forma all’altra. Donne con i baffi, danzatori con le punte e i polpacci pelosi, dandy in lunghi abiti da sera e femmes con cilindro e bastone. Li trovo più completi.
Nelle tue immagini è molto presente l’elemento ironico, che esplode in particolare in vanitas vanitatum et omnia vanitas, dove fai “parlare” le mummie della cripta dei Cappuccini con la “voce” di moderni sms, in accostamenti davvero divertenti. La particolarità di questa operazione è che i testi sono veri. Ci spieghi come funziona?
Il ciclo sulla Vanitas ha preso vita dopo una mia visita alle Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Sono rimasta molto impressionata dal vedere questi resti umani appesi alle pareti a scrutare visitatori inebetiti che passeggiano stanchi in questa foresta di mummie come a rinfrancarsi dalla calura esterna in un silenzioso labirinto degli orrori. Loro stanno lì, sogghignano, pendono, col fieno che si affaccia dai loro orifizi, a chiudere intercapedini scomode, le mani legate, la mascella disarticolata, in un urlo muto che non avrebbero mai voluto esprimere: di questo sono certa.
Questi uomini e donne, preti, bambini, ingegneri, vergini, papi sono stati in vita perlopiù persone benestanti, molto benestanti, vissute la maggior parte fra il XVII e XVIII secolo. Sono stati loro stessi a scegliere quella piccola nicchia di muro che sarebbe diventata la loro tomba eterna: vi si accomodavano da vivi, per comprendere se avrebbero potuto riposarci serenamente da morti e per poter permettere ai loro cari di andarli a trovare ogni qualvolta desiderassero e ritrovarli splendidi al loro arrivo, proprio come li avevano lasciati in quello sventurato giorno, incorrotti e inviolati dalla morte. Silenziosi protettori che in cambio desideravano solo essere ricordati, in tutta la loro bellezza, in tutta la loro immutabile corporeità. E invece: che scherzo del destino. Sono mummie, simulacri di una morte che ha preso il sopravvento su di loro, putrefatti, scarnificati, rinsecchiti, ululanti. Sono brutti. E bellissimi scherzi della natura che aihnoi è molto più potente del volere presuntuoso dell’uomo.
Ecco perché ho deciso di accostare queste immagini a messaggini ricevuti attraverso i nostri moderni scambi di comunicazione. Ho voluto fare un parallelo fra la corruttibilità corporea e la vanità delle passioni, dei desideri, delle nostre volontà. Noi spesso dichiariamo frasi che presumiamo avere un valore altissimo, che desideriamo esprimere per lasciare un segno, indelebile. Parole importanti che in quel momento, mentre le stiamo pronunciando, davvero ci inganniamo che siano eterne, che vorremmo davvero lasciare impresse come marchi indelebili nei cuori delle persone alle quali le destiniamo. Ma sappiamo in cuor nostro che persino i nostri più profondi sentimenti sono mutevoli e fluttuanti, promiscui come noi, corruttibili come i nostri corpi. E per di più nell’era moderna, dove non ci serviamo nemmeno più di carta e calamaio, di un segno palpabile e concreto come quello dell’inchiostro, capace di perdurare almeno in quanto materia, sino al suo effettivo disfacimento. Elettricità, soltanto elettricità. Nemmeno la concretezza della carta avvizzita. Fine del messaggio. Tutto svanito. Cosa rimane? Un ricordo. Un ghigno, l’amarezza, il dolceamaro trastullarsi del nostro rimuginio cerebrale in storie vissute o soltanto sperate ma che inevitabilmente non sono eterne.
Ho cominciato questi lavori servendomi di sms da me personalmente ricevuti: frasi cariche di sentimenti o presuntuose dichiarazioni di un “sempre” che non esiste. Ironicamente ho accostato queste parole alle immagini di questi corpi in putrefazione, creature che nel loro intento avrebbero desiderato trovarsi lì, incorrotte e splendenti a guardarci dall’aldilà.
Il mio intento sarebbe quello di proseguire questo ciclo, intitolato vanitas vanitatum et omnia vanitas (vanità delle vanità, tutto è vanità), servendomi di sms donatemi dagli spettatori. Desidererei che il pubblico volesse partecipare alla creazione delle opere stesse, condividendo con me lo stesso intento di smascherare un po’ di questa nostra vanità, e decidendo di donarmi un sms personalmente ricevuto o inviato, con tanto di data e ora dell’invio e errori ortografici, se ve ne sono… ma senza il mittente. Qui non si desidera puntare il dito su nessuno poiché sono certa che ognuno di noi, me per prima, abbia nella propria vita fatto dichiarazioni presuntuose sebbene effimere, ognuno di noi fa parte dello stesso ammasso di polvere destinato a ritornare alla polvere.
Nel mio sito internet, alla pagina dedicata alla Vanitas, si può trovare un modulo da compilare, per chi desiderasse collaborare con me alla creazione di una nuova opera.