Marika Puicher, 36 anni, è una fotografa freelance nata e cresciuta sulle Dolomiti bellunesi. Dopo la laurea in Scienze dell’Educazione frequenta il Master in Reportage Sociale e in Comunicazione Visiva presso l’Accademia John Kaverdasch di Milano. Attualmente vive a Bologna e si occupa di reportage sociali e di progetti di sensibilizzazione, spostandosi su territorio nazionale ed internazionale.
Nel 2012 vince il Portfolio Citerna con il progetto Nel nome dei figli, promosso dall’Associazione Pereira, che tratta il tema delle stragi terroristiche in Italia. In seguito vince il “Pride Photo Award 2015” con il progetto Ella (She) e il secondo premio, nella categoria “Stories of Love and Pride” del medesimo concorso, con il progetto Solo. Nello stesso anno Ella riceve una Menzione d’onore al MIFA – Moscow International Fotography Award 2015.
Nel 2015 hai vinto il Pride Photo Award, il contest internazionale per progetti fotografici che affrontano il tema della diversita’ sessuale e di genere, portando a casa ben due riconoscimenti: la foto vincitrice, tratta dalla serie “Ella(she)” e il secondo premio nella categoria “Storie di amore e orgoglio” con il reportage “Solo”. Mi parli un po’ di questi due progetti?
Sia Ella che Solo sono nati mentre stavo sviluppando altri lavori fotografici.
Incontrai Eli e la sua famiglia per la prima volta a Madrid nel 2014, dove mi trovavo per documentare le attività della Fùndation 26D: un’associazione nata per offrire aiuto, assistenza e un luogo d’incontro per persone LGBT di “terza età”. Fu Federico Armenteros, Presidente di questa fondazione, che mi parlò per la prima volta della famiglia di Eli, con la quale collaborava da tempo. Per me fu come una rivelazione, ho sentito subito che era una storia che mi interessava profondamente e che valeva la pena raccontare. Pochi giorni dopo Federico mi ha presentato Eli e la sua famiglia e l’anno successivo sono tornata a Madrid per seguire questo progetto. Prima di quell’incontro non avevo mai sentito parlare di bambini transessuali e, in seguito, mi sono resa conto che in Italia questa tema è totalmente tabù. Ovviamente anche nel nostro Paese, come in tutto il resto del mondo, esistono minori transessuali (nella maggior parte dei casi abbiamo coscienza fin da piccolissimi del genere a cui sentiamo di appartenere), ma in Italia credo che le famiglie tendano a reprimere la natura di questi bambini o a non parlarne pubblicamente per paura del giudizio sociale. Non c’è da meravigliarsene se si pensa che viviamo in un Paese in cui alle persone LGBT sono ancora negati dei diritti fondamentali: l’Italia è uno dei pochi Paesi europei che non ha ancora legalizzato le unioni tra persone dello stesso sesso. La Spagna da questo punto di vista invece è molto più avanti. Dal 2005 consente le unioni civili a coppie omosessuali, che hanno la possibilità di adottare dei bambini anche al di fuori del matrimonio; una conquista non da poco per uno Stato in cui fino al 1978 gli omosessuali venivano torturati, perseguitati, chiusi in ospedali psichiatrici o in carcere dal regime franchista. Per quanto riguarda i bambini transessuali, mentre in Italia la stragrande maggioranza delle persone si irrigidisce quando sente questo termine, al momento in Spagna esistono due associazioni, Chrysalis e Daniela, fondate da genitori di questi minori che lottano per informare la società e garantire maggiori diritti ai loro bambini, affinché possano crescere il più serenamente possibile.
Le foto della serie Ella(she) sono visibili sul sito dell’Agenzia Parallelo Zero
Per quanto riguarda Solo, nel 2014 mi sono recata in Marocco per fare un reportage su Aquarium, una compagnia teatrale militante di Rabat fondata dalla regista, attivista e femminista, Naima Zitan. Il giorno in cui incontrai Imane mi trovavo presso i vecchi Abattoir di Casablanca, dove mi ero spostata qualche giorno per fotografare il Boulevard Festival, un importante festival musicale marocchino. Imane colpì immediatamente la mia attenzione perché stava baciando e camminava mano nella mano con un’altra ragazza, un atteggiamento a dir poco inusuale in Marocco. Così mi avvicinai e le chiesi se le avrebbe fatto piacere raccontare la sua storia e con mio grande stupore lei mi disse subito di sì. Nei giorni seguenti, documentando la vita di Imane, mi sono resa conto che il Boulevard Festival rappresenta una sorta di “oasi di libertà” per molti giovani marocchini, e che la vita per le lesbiche è molto dura in questo Stato. Si può dire che la cultura e la legislazione marocchina in termini di diritti delle persone LGBT è agli antipodi rispetto a quella spagnola ed è certamente più chiusa e repressiva di quella italiana. L’omosessualità è illegale e socialmente condannata in Marocco, tanto che può essere punita con una pena che va da sei mesi a tre anni di carcere. Fui subito attratta dalla storia di Imane anche perché mi permetteva in qualche modo di continuare e approfondire un percorso di documentazione sulle coppie omosessuali che avevo iniziato qualche mese prima in Italia. Molti omosessuali marocchini sognano di emigrare in qualche stato occidentale dove poter manifestare e vivere liberamente la propria sessualità. Imane sogna di emigrare in Italia. Per questo si è tatuata sulla mano sinistra l’unica parola italiana che conosce: “Solo”. Quest’unica parola secondo me esprimeva perfettamente la vita e lo stato di questa giovane ragazza. Abbandonata fin da piccolissima sia dalla madre sia dal padre, anche se in seguito è stata cresciuta da una donna che l’ama come una figlia, cresciuta in una società che bene o male la giudica e ghettizza Imane mi ha dato sempre l’impressione di sentirsi terribilmente sola, anzi terribilmente solo.
Nel tuo lavoro di fotoreporter ti occupi di diverse tematiche, però in più occasioni, nel corso del tempo, hai avvicinato il mondo e le problematiche del mondo LGBTQ. Da dove ti deriva questo interesse?
Questa è una domanda che mi fanno in molti, e spesso con una punta di malizia e anche di curiosità che probabilmente nasce anche dal fatto che sembra strano che un eterosessuale possa interessarsi così di tematiche omosessuali.
Ho iniziato nel 2012 fotografando qualche spettacolo e workshop delle Eyes Wild Drag (collettivo romano di performer queer ndr), poi nel luglio del 2014 ho documentato la storia d’amore di Paolo e Mauro, una coppia di omosessuali di Faenza che stanno insieme da 20 anni. Un mese dopo sono andata a Madrid per documentare le attività della Fundation 26D, rivolte soprattutto a omosessuali over 60; a settembre, sempre del 2014, ho iniziato a fotografare Imane a Casablanca e l’anno successivo, per la precisione nell’aprile del 2015, sono tornata a Madrid per approfondire il lavoro sui bambini transessuali.
Credo che nel mio lavoro, forse come nella vita in generale, si inneschi spesso come una sorta di circolo virtuoso: tu inizi a raccontare una storia, e spesso per farlo devi viaggiare, aprirti a realtà e persone nuove e, nel corso di questa esperienza, capita che i tuoi nuovi incontri ti diano una serie di nuove idee e spunti lavorativi, che spesso sono collegati al contesto che stai già documentando. É un po’ quello che è capitato da Paolo e Mauro in poi.
Secondo me il filo conduttore principale che lega tutte queste storie non è tanto quello dell’omosessualità quanto quello del diritto. Questo è il punto che mi interessa approfondire principalmente. Queste storie parlano tutte in qualche modo del diritto di essere ciò che si sente o si desidera essere, ciò che si è, al di là di quello che questa società dice che sia giusto o sbagliato, e in ultima analisi del diritto di amare. Credo che uno Stato che neghi pari liberà e diritti ad uno solo dei suoi cittadini, come per esempio lo Stato Italiano che non riconosce ancora le unioni tra coppie omosessuali, stia negando questi diritti a tutti. Anche perché nel corso di questi lavori ho capito che l’orientamento sessuale non è qualcosa di così ben definito, ho incontrato delle donne che per una vita hanno frequentato solo uomini e che poi un bel giorno si sono innamorate perdutamente di una loro amica, come ho conosciuto uomini che dopo essersi fatti l’operazione per cambiare sesso si sono innamorati per la prima volta nella loro vita di una donna. Parlando con loro la risposta era sempre la stessa: “l’amore è l’amore”, va oltre i nostri schemi sociali. Per cui chi ci assicura che questo non potrebbe succedere un giorno a noi, o che nostro figlio non possa per esempio sentirsi una femmina fin da piccolissimo pur essendo nato maschio?
Sul piano più strettamente commerciale, qual è stata la ricezione di queste storie, anche in rapporto ad altre da te affrontate? Vendono allo stesso modo o sono più difficili da piazzare perchè troppo “critiche”? Penso ad esempio alla storia di Ella, considerando tutta la polemica che in Italia si sta facendo sulla Teoria Gender.
Dal punto di vista commerciale paradossalmente le varie redazioni, fino ad ora, hanno dimostrato più interessa per Ella rispetto alla storia di Paolo e Mauro o a Solo. Questo credo che si spieghi con il fatto che il tema dei bambini transessuali per certi versi (soprattutto nel nostro Paese) costituisce una novità, è ancora poco conosciuto dalla gente e poco trattato a livello editoriale. É vero che dall’altro lato ci sono delle riviste che sia in Italia che all’estero probabilmente hanno deciso di non pubblicarlo proprio a causa dei tabù e dei pregiudizi che ancora persistono riguardo a questa tematica. Ma è anche vero che altre riviste hanno espresso da subito il loro interesse, in Italia per esempio Ella è stato pubblicato da “Gente”. E devo dire che sono stata molto contenta per quella pubblicazione, sia perché secondo me il giornalista ha affrontato con il giusto taglio e delicatezza questa storia sia perché “Gente” è uno dei settimanali più letti in Italia e io credo che sia fondamentale informare il più possibile la nostra società su questo tema.
Nei tuoi reportage sviluppi la tematica di cui ti occupi sempre a partire da una storia personale, mi sembra che questo sia il tuo stile. Come si sviluppa la relazione con il soggetto fotografato? Che ruolo ha il/i soggetto/i con cui lavori nella definizione delle immagini e degli scatti?
Mi interessa molto entrare nelle storie e in un certo senso nella vita delle persone, sento che questa cosa mi arricchisce, mi riempie di esperienze e vissuti nuovi e spesso mi da la possibilità di creare bei rapporti umani. Credo che per raccontare bene una storia sia spesso fondamentale entrare in empatia con il soggetto che fotografi. Anche se forse questo non è sempre possibile, per esempio poco tempo fa ho parlato con un collega che stavano svolgendo dei lavori su dei gruppi di fanatici fascisti, e se decidessi mai di documentare una realtà simile sarei sicuramente costretta ad usare delle alternative all’approccio empatico.
Quando decido di raccontare una storia, la prima cosa che faccio è quella di spiegare al soggetto che fotografo come intendo impostare il lavoro, facendo anche sempre presente che ogni progetto si definisce meglio in corso d’opera, a seconda anche delle esigenze o degli input che più o meno direttamente ti arrivano dai soggetti che stai fotografando. Con l’esperienza ho imparato che è importante essere molto chiari in questa fase: spiegare i tipi di situazioni che si vorrebbe documentare, il taglio, il tipo di distribuzione che avrà il reportage, ecc. In seguito fisso una serie di appuntamenti con il soggetto per seguirlo durante le sue attività quotidiane. Se fosse per me ovviamente mi farei adottare in ogni caso almeno per una settimana, per essere dentro la storia 24 ore su 24, ma questo spesso non è possibile e quindi di solito ci vuole molto tempo per cogliere i diversi aspetti che voglio documentare. In questa fase conosco meglio il soggetto, i suoi gusti, le sue abitudini, la sua sensibilità, che son tutte cose che influenzano il mio modo di fotografarlo e che possono darmi idee nuove. Alla fine del lavoro poi, se il soggetto lo richiede, visioniamo insieme gli scatti selezionati.
Quali sono altri tratti caratteristici del tuo lavoro reportagistico e del tuo stile fotografico?
Faccio molta fatica a definire il mio modo di fotografare. Mi è stato detto più volte che ho uno stile tendenzialmente abbastanza “pulito”, simmetrico e lineare. Inizialmente non mi riconoscevo in questa cosa, sentivo che non mi rappresentava, perché interiormente mi sono sempre sentita un gran caos. Poi mi sono resa conto che è proprio così, probabilmente più o meno inconsciamente ricerco nello scatto un ordine che sento di non avere interiormente. Penso spesso che potrebbe essere terapeutico e ancora più creativo per me imparare a dare più libero sfogo anche al mio caos interiore attraverso la fotografia, per questo mi auguro anche che il mio stile possa cambiare ed evolvere continuamente in sintonia anche con una sorta di ricerca personale.
Infine mi piacerebbe sapere qualcosa di più sul tuo percorso formativo. Come è nata la passione per la fotografia? Che cosa ti ha fatto decidere ad arrischiarti nel mondo, sempre più difficile, del reportage? La tua formazione come educatrice quanto si è riversata ed influenza il tuo lavoro come fotografa?
La mia passione per la fotografia è nata circa 8 anni fa, un po’ per gioco, fotografando quello che vedevo dalla finestra di un mio ex appartamento a Bologna. Da lì ho frequentato qualche corso, tra i quali uno organizzato dall’associazione UFO (Unione Fotografi Organizzati) di Bologna che mi ha avvicinato al mondo del reportage. In seguito ho iniziato a pensare che poteva essere qualcosa di più che una passione e mi sono iscritta ai Master in Reportage Sociale e Comunicazione Visiva presso l’Accademia John Kaverdash di Milano. Il primo lavoro che ho svolto come fotografa è stato per il Festival Artisti e Territorio, organizzato da vari comuni della “Bassa bolognese”, per il quale ho fotografato una serie di attività rurali della zona. É un lavoro a cui sono affezionata: conservo ancora le sensazioni, gli incontri e i ricordi di quei lunghi weekend passati a girovagare per quelle terre desolate e allo stesso tempo affascinati alla ricerca di storie. Per caso quelle foto furono viste dall’allora caporedattore della provincia del quotidiano Il Resto del Carlino, che mi chiamò e mi chiese se avevo altre storie e se avevo voglia di iniziare a collaborare con loro. Così ho iniziato a lavorare come fotografa: fotografavo le storie più particolari che riuscivo a trovare in provincia per le quali scrivevo anche l’articolo.
Credo che la mia formazione come educatrice abbia influenzato in qualche modo i miei progetti fotografici, anche perché penso che questi due lavori abbiano qualcosa in comune: per esempio il fatto di poter in qualche modo conoscere ed entrare in contatto con realtà e culture diverse dalla mia. Come educatrice lavoravo presso famiglie con minori con diverse problematiche e presso una casa d’accoglienza per donne straniere, molte delle quali avevano subito violenze di vari tipi. Credo che questi lavori mi abbiano insegnato ad approcciarmi alle persone e alle loro storie con una certa delicatezza, cosa fondamentale se vuoi occuparti di reportage sociale. La fotografia mi ha insegnato però ad avere uno sguardo che definirei più antropologico sulla realtà, più privo di giudizi, cosa che non ho ritrovato spesso in ambiente educativo, dove c’è troppo spesso la pretesa di voler insegnare all’altro ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Quello che mi ha spinta più di tutto a decidere di cambiare lavoro è stato rendermi conto che mentre facevo delle attività con donne e minori non ero in realtà lì con loro, ma stavo pensando agli scatti che avrei voluto fare, alle storie che volevo fotografare. Così ho pensato che loro avrebbero dovuto avere un’educatrice più motivata e che io avrei dovuto seguire la mia passione.