Quando vedo il titolo di una mostra, inevitabilmente mi creo delle aspettative sul suo contenuto. Forse perché ancora non ho capito che spesso i titoli curatoriali, con le rispettive spiegazioni, non sono altro che cappelli messi ad ornamento di un variegato vestiario: devono stare bene con l’insieme, non essere necessariamente una spiegazione coerente e collegante. Ho vissuto questa sensazione anche con Effetto Terra, l’ultima edizione di Fotografia Europea, Festival internazionale di fotografia che da ormai dieci anni si tiene a Reggio-Emilia e di cui sono un affezionato frequentatore, avendone visto almeno 6 edizioni. E ciò che più mi ha colpito dopo aver visto tutte le mostre è forse la discrepanza fra ciò che in me suscitava il titolo e ciò che ho ritrovato nei progetti fotografici esposti.
Però non voglio addentrarmi in una disamina critica sulle scelte curatoriali, e mi limito a tenermi l’interrogativo su come debba essere scelto il titolo di un festival. Deve essere evocativo o esprimere il tema portante che permette di “decriptare” i vari lavori? Metto ora da parte questi quesiti per dedicarmi ai lavori fotografici.
Due per me i lavori di maggior impatto visivo: Unfinished Father, l’installazione del danese Erik Kessels e Fotoscopia, l’installazione della pugliese Alessandra Calò.
Entrambi rappresentativi di un nuovo modo di concepire la fotografia artistica. Kessels non usa le pareti, ma dispone tutto a terra, in perfetto ordine, oggetti e fotografie, ricordi “scomposti” del padre, come qualcosa che cerca un’unità che non può essere raggiunta, perché la “ricomposizione” è stata congelata. L’autore non propone nessuna foto da lui realizzata, ma utilizza l’archivio delle foto che il padre scattava procedendo con la propria attività, insieme ai pezzi della Topolino che stava rimettendo a nuovo quando è stato colpito da un ictus. Nell’ottica del ready-made, Kessels dispone tutti questi elementi, dispiegando in forma artistica un dolore privato e infondendo l’insieme di una rigidità che può essere sia il rigore metodico sia quella della emiparesi tipica dell’ictus.
Alessandra Calò sviluppa un’elaborazione visiva stratificata della vita dell’Ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Ogni opera/immagine è composta da tre lastre di vetro stampate con antiche tecniche a partire da fotografie di “pezzi” di vita di ospedale, appoggiate su una fonte luminosa. Nessuna documentazione, ma frammenti visivi che si sovrappongono e combinano per proporre un’esperienza molto personale.
Ho trovato molto ironico e provocatorio, invece, Gastropoda, il lavoro del catalano Joan Fontcuberta.
In una fase storica in cui si discute molto sul concetto di autorialità, lui riesce a trovare l’idea giusta per rappresentare in maniera diretta, incisiva e ironica la domanda fatale: per avere un’opera d’Arte, è sufficiente avere una buona idea? E così Fontcuberta mette all’opera delle lumache, a cui dà in pasto delle immagini, attendendo che siano loro a produrre una nuova immagine, che poi lui si limita a fotografare e stampare. Aprendo così a una seconda domanda: chi è l’Autore? Fontcuberta o le lumache? (E del resto il lavoro di Kessels è per me un tipico esempio della tendenza dell’arte contemporanea che suscita tutti questi quesiti).
Ma Gastropoda è un lavoro concettuale a più significati. Infatti nell’usare le lumache Fontcuberta richiama, per contrapposizione, alla modalità Fast Food con cui consumiamo il mondo delle immagini. Raffinatezza ulteriore…le lumache sono un omaggio al naturalista Spallanzani che a lungo studiò questo animale (Gastropoda è infatti un lavoro commissionato da Fotografia Europea e site-specific, essendo allestito all’interno del Palazzo dei Musei, che appunto ospita la collezione Spallanzani).
Se il lavoro di Fontcuberta può essere quasi considerato un divertissment, sebbene per nulla banale, molto serio e impegnativo è Asynchronous dello svizzero Jules Spinatsch, sui reattori nucleari. Un tema portato avanti da anni, molto difficoltoso nella realizzazione e sviluppato ogni volta utilizzando strategie visive e tecniche differenti. Ho trovato questo lavoro un ottimo esempio di ricerca a livello sia di contenuti che di forma.
Nella sezione intitolata No Man Nature il rapporto con la Terra si fa più evidente. Mi sono piaciuti i lavori di Stephen Gill, che crea delle visioni poetiche decorando delle immagini con elementi naturali (fotografando poi il tutto) e il video di Amedeo Martegani che evoca il senso di disorientamento in una foresta notturna, riprendendo un cavallo cinto da un fascio luminoso.
Molto interessanti per le riflessioni sugli effetti dell’azione umana sull’ambiente i progetti di Darren Almond sulle foreste morte della Siberia nella zona di estrazione del nikel, di Richard Mosse sulle automobili relitto nel deserto iracheno e di Mishka Henner con le sue vedute satellitari degli allevamenti intensivi e dei siti di estrazione del petrolio (e ci vuole il satellite per coglierli nella loro estensione caratterizzata da una geometria tanto affascinante quanto distruttiva). Particolare anche il racconto di Ricardo Cases di una giornata di caccia in un parco a tema (l’uomo si sente sempre cacciatore, ma vuole esserlo senza rischi).
Concludo la rassegna dei lavori che più mi hanno colpito con Blank di Luca Gilli, con i suoi interni in cui i muri che si dissolvono in un bianco luminosissimo creano un effetto percettivamente straniante grazie alla concretezza fisica di alcuni elementi colorati.
Per finire, un apprezzamento alla sezione dedicata ai libri d’autore e una critica all’estetica di post-produzione fotogiornalistica che ho visto nella sezione dedicata all’Agenzia Noor, che dovrebbe aumentare la drammaticità e invece abbrutisce solo le immagini.
Tirando un po’ le somme, direi che questa edizione di Fotografia Europea dà spazio ad una concezione di fotografia non documentarista, privilegiando un modo di fare tipico dell’arte contemporanea, assecondando così le tendenze prevalenti a livello internazionale. Molti autori sono di calibro (e ho tralasciato Olivo Barbieri, perché nel suo lavoro c’è qualcosa che non mi convince).
Quello di cui ho sentito la carenza, rispetto al tema e alla dichiarazione fatta nella quarta di copertina del catalogo dove si dice “Effetto Terra ci permette di interrogarci sullo stato del nostro pianeta”, è forse un mancato affondo critico a livello di riflessione e di significatività dei temi proposti nei diversi progetti fotografici. Nonostante ciò per me resta uno dei migliori festival di fotografia italiani, capace di una reale portata internazionale.